Sempre di più si ritiene che la rappresentazione della true and fair view debba passare per la definizione di un quadro sistematico di informazioni che vanno oltre gli usuali indicatori economico-finanziari e che considera aree di “risultato” che sono da interpretare come costituenti la vera complessiva performance e il vero e complessivo stato del patrimonio aziendale anche e soprattutto in chiave prospettica.
Queste informazioni di carattere quantitativo e qualitativo, espresse molto spesso in unità di misura non monetarie, sono normalmente lontane dalle competenze e dalle “corde” dei soggetti che partecipano ai processi legati al bilancio (direttori amministrativi, CFO, commercialisti, revisori ecc.), ma allo stesso tempo sono sempre più interpretate da parte di chi le legge come di importanza fondamentale per la comprensione non tanto solamente delle “performance” ottenute, quanto della capacità di sopravvivenza nel lungo periodo e dei futuri rischi, in un’ottica di forward looking.
Il doppio binario: obblighi e volontà
I soggetti che si cimentano nella sfida di essere accountable e trasparenti sui temi della “sostenibilità” lo fanno in funzione di specifici obblighi, come capita per gli Enti di Interesse Pubblico (EIP), oppure ciò può avvenire in chiave volontaristica. Sotto il profilo oggettivo, le informazioni non-finanziarie possono, da un lato, avere come fonti specifiche le norme, dall’altro possono riferirsi a standard, a framework riconosciuti, a prassi applicative.
La problematica dell’informativa non finanziaria è ampia e variegata, specialmente in un contesto in cui gli obblighi e le aree di comunicazione in materia si stanno costantemente allargando, in funzione di un processo guidato dall’Unione Europea. Molte aziende forniscono informazioni inerenti le azioni e i risultati in ambito di sostenibilità.
Non esistono numeri ufficiali che possano confermare statisticamente il fenomeno, ma basta guardare i siti delle aziende anche non quotate per scoprire che queste raccolgono informazioni non-finanziarie riguardanti l’ambiente e la sfera sociale e le sistematizzano in documenti di disclosure verso gli stakeholder.
Anche in assenza di obblighi, infatti, molte aziende volontariamente si cimentano nella sfida di essere accountable e trasparenti sui temi della “sostenibilità”, arricchendo la comunicazione di bilancio di informazioni non-finanziarie che non rappresentano un generico adempimento, ma che possono, in taluni casi, permettere la lettura prospettica dell’azienda in funzione anche delle sue politiche e del suo orientamento alla gestione dei rischi per un futuro sostenibile.
Gli interessi che emergono dalle Comunità
La motivazione alla disclosure di sostenibilità è da ricercarsi, oltre che nella necessità di legittimazione da parte delle comunità, nella richiesta specifica da parte delle banche e dei clienti. Le banche, su stimolo dell’EBA, infatti, sempre di più adottano criteri ESG per la valutazione degli affidamenti, poiché necessitano di una rappresentazione aziendale che guardi al futuro, anziché solamente ai risultati passati. In particolare, a partire da giugno 2022 gli enti di grandi dimensioni che hanno emesso titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato di qualsiasi Stato membro devono divulgare le informazioni prudenziali sui rischi ESG, compresi i rischi di transizione e fisici.
I clienti, dal canto loro, in particolare quelli di grandi dimensioni, finanziarizzati e con profilo internazionale, operano attivamente nei confronti dei loro fornitori al fine di poter monitorare e guidare gli effetti di una transizione verso un’economia green e attenta ai problemi sociali lungo tutta la supply chain.
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Testo integrale di M. Cisi “L’informativa non finanziara”, pubblicato in Modulo24 Bilancio, Il Sole 24 ORE.
Sempre di più si ritiene che la rappresentazione della true and fair view debba passare per la definizione di un quadro sistematico di informazioni che vanno oltre gli usuali indicatori economico-finanziari e che considera aree di “risultato” che sono da interpretare come costituenti la vera complessiva performance e il vero e complessivo stato del patrimonio aziendale anche e soprattutto in chiave prospettica.
Queste informazioni di carattere quantitativo e qualitativo, espresse molto spesso in unità di misura non monetarie, sono normalmente lontane dalle competenze e dalle “corde” dei soggetti che partecipano ai processi legati al bilancio (direttori amministrativi, CFO, commercialisti, revisori ecc.), ma allo stesso tempo sono sempre più interpretate da parte di chi le legge come di importanza fondamentale per la comprensione non tanto solamente delle “performance” ottenute, quanto della capacità di sopravvivenza nel lungo periodo e dei futuri rischi, in un’ottica di forward looking.
Il doppio binario: obblighi e volontà
I soggetti che si cimentano nella sfida di essere accountable e trasparenti sui temi della “sostenibilità” lo fanno in funzione di specifici obblighi, come capita per gli Enti di Interesse Pubblico (EIP), oppure ciò può avvenire in chiave volontaristica. Sotto il profilo oggettivo, le informazioni non-finanziarie possono, da un lato, avere come fonti specifiche le norme, dall’altro possono riferirsi a standard, a framework riconosciuti, a prassi applicative.
La problematica dell’informativa non finanziaria è ampia e variegata, specialmente in un contesto in cui gli obblighi e le aree di comunicazione in materia si stanno costantemente allargando, in funzione di un processo guidato dall’Unione Europea. Molte aziende forniscono informazioni inerenti le azioni e i risultati in ambito di sostenibilità.
Non esistono numeri ufficiali che possano confermare statisticamente il fenomeno, ma basta guardare i siti delle aziende anche non quotate per scoprire che queste raccolgono informazioni non-finanziarie riguardanti l’ambiente e la sfera sociale e le sistematizzano in documenti di disclosure verso gli stakeholder.
Anche in assenza di obblighi, infatti, molte aziende volontariamente si cimentano nella sfida di essere accountable e trasparenti sui temi della “sostenibilità”, arricchendo la comunicazione di bilancio di informazioni non-finanziarie che non rappresentano un generico adempimento, ma che possono, in taluni casi, permettere la lettura prospettica dell’azienda in funzione anche delle sue politiche e del suo orientamento alla gestione dei rischi per un futuro sostenibile.
Gli interessi che emergono dalle Comunità
La motivazione alla disclosure di sostenibilità è da ricercarsi, oltre che nella necessità di legittimazione da parte delle comunità, nella richiesta specifica da parte delle banche e dei clienti. Le banche, su stimolo dell’EBA, infatti, sempre di più adottano criteri ESG per la valutazione degli affidamenti, poiché necessitano di una rappresentazione aziendale che guardi al futuro, anziché solamente ai risultati passati. In particolare, a partire da giugno 2022 gli enti di grandi dimensioni che hanno emesso titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato di qualsiasi Stato membro devono divulgare le informazioni prudenziali sui rischi ESG, compresi i rischi di transizione e fisici.
I clienti, dal canto loro, in particolare quelli di grandi dimensioni, finanziarizzati e con profilo internazionale, operano attivamente nei confronti dei loro fornitori al fine di poter monitorare e guidare gli effetti di una transizione verso un’economia green e attenta ai problemi sociali lungo tutta la supply chain.
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Testo integrale di M. Cisi “L’informativa non finanziara”, pubblicato in Modulo24 Bilancio, Il Sole 24 ORE.
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